
La politica è l’arte del possibile.
Se c’è di mezzo lui, Gianfranco Fini, anche dell’impossibile.
La sua linea politica è la svolta; se avesse un quotidiano tutto suo, lo chiamerebbe: «Svolta continua».
E’ partito da Destra ed è arrivato chissà dove.
Qualche giorno fa si è celebrato il 60 anniversario della nascita del MSI; mancava proprio lui, che ne è stato l’ultimo segretario.
Al congresso di Fiuggi aveva rimpicciolito la Fiamma, pronunciando una frase che sarebbe rimasta famosa: «Usciamo dalla casa del padre con la certezza che non vi faremo ritorno».
Ai militanti non aveva detto che sarebbero finiti in affitto.
Da neofascisti sono divenuti … ANisti; per chi stava in un partito macho, una beffa.
Dove c’è lui, c’e spazio per tutto e niente, tutto è un valore irrinunciabile, fino alla rinuncia.
Nel suo simbolismo ci sta la coccinella e l’elefante, il tutto e il di più, ma… «Sotto il Partito, niente».
Segno zodiacale: camaleonte.
La Destra è morta e nemmeno per nobili Fini.
La Destra era Dio, Patria, Famiglia, Tradizione mischiata a Futurismo, un po’ di reducismo e nostalgia, un po’ di feticismo e goliardia, saluti romani, circoli evoliani, nobiltà e sottoproletariato, più di un militante spampanato, un crogiuolo di idee e lacerazioni, di faide, di sette, di fazioni, uniti da idea di alternativa, improbabile, imprecisa: la destra era povera, ma viva e nonostante tutto affascinava.
Fu su questo mondo fatto di scarti della storia, di «rifiuti» culturali, di tipi umani originali, di caratteri asociali, di anarchici dell’ordine, di piccolo-borghesi un po’ frustrati, di qualche imprenditore pazzo e originale, di più di un fior di intellettuale, di salotti un po’ attempati, di militari e congiurati, di giovanotti aitanti e militanti, di signorine un po’ accaldate e ragazze combattenti; il MSI tenne per anni la piazza e una rappresentanza parlamentare decorosa e finanche significativa (era pur sempre la quarta forza politica italiana e all’inizio degli anni ‘70 tallonava da vicino il PSI).
Le sue fortune politiche esplosero in coincidenza con le disavventure altrui. In concomitanza con Tangentopoli, il partito della Fiamma senza bisogno di abiure di sorta, né di cambiamenti di nome, di simbolo, di DNA si attestò attorno al 12% dei voti, ma in alcune aree del Paese toccò e supero il 30% dei voti. Più o meno come l’attuale AN.
Roma per qualche anno fu la capitale «nera» d’Italia.
I quartieri popolari regalarono al partito di Fini percentuali di voto straordinarie.
L’anima sociale e popolare della Destra, quella che negli anni ’70 aveva incendiato Reggio Calabria, tornava prepotentemente alla ribalta.
Era un partito caotico - si capisce! - travolto da insolito successo, che certo necessitava di una ristrutturazione, ma che aveva dentro di sé alcuni lasciti da non sperperare: l’immagine di pulizia (dovuta anche al fatto di essere stato escluso da ogni spazio di potere), di ordine, di legalità, di identità nazionale, di socialità, di statualità, di autorità, di valori antichi.
Era un partito di facciata neofascista che oscillava tra un gollismo occidentalista, di cui Fini dopo Almirante divenne leader ed un terzaforzismo paneuropeista e differenzialista - l’ala rautiana - che poteva contare su un buon terzo dei consensi interni e che nel 1990 riuscì a conquistare la segreteria fino al luglio del 1991, quando l’utopia dello sfondamento a Sinistra lo fece precipitare a percentuali da PDUP.
Poi tornò Fini e la fortuna lo baciò in fronte, perché nel giro di due anni, mentre il MSI faticosamente riguadagnava i voti perduti, scoppiò lo scandalo di Tangentopoli.
Occasionalmente Fini era segretario e passò all’incasso: non per meriti particolari, poiché in quello sconquasso istituzionale chiunque fosse apparso estraneo al sistema avrebbe mietuto i frutti della protesta.
Il MSI, poi, nel raccogliere il voto di protesta era da sempre stato maestro e in quella circostanza lo fece con l’arma che gli era più congeniale: populismo, giustizialismo, pulizia morale, rivendicazione di radici e diversità.
Gridava allora Fini: «Basta con il garantismo, basta con questa larva di Stato impotente, basta con la legge che premia i delinquenti e abbandona i cittadini onesti!»; «i capi mafiosi vanno passati per le armi, bisogna ripulire il Paese dal cancro della malavita»; «dalla questione morale non si esce se i magistrati non andranno fino in fondo e chi parla di congiure e complotti ha invece il dovere di rinunciare all’immunità parlamentare!»; «la questione morale deve diventare l’Algeria della Repubblica italiana nata dalla Resistenza!».
Resta memorabile la lettera inviata a Francesco Saverio Borrelli il giorno dopo che il Parlamento aveva votato no all’autorizzazione a procedere nei confronti di Craxi: «Lo sdegno e l’amarezza che pervadono la Nazione di fronte allo scandaloso verdetto di autoassoluzione che il regime si è confezionato con il voto dell’aula di Montecitorio sul caso Craxi sono da noi interamente condivisi. La nostra forza politica chiede l’immediato scioglimento delle Camere e nuove elezioni proprio per consentire alla giustizia di procedere nel suo corso senza intollerabili franchigie e pretestuosi ostacoli. Che sia il popolo sovrano, nel nome del quale la giustizia si esercita, a superare l’inammissibile scudo della immunità parlamentare e a consentire ai giudici italiani di svolgere sino in fondo la loro irrinunciabile funzione. Con i più cordiali, deferenti saluti».
Poi arrivò il successo; e il successo, si sa, dà alla testa; e cambiò tutto.Di Borrelli nella primavera del ‘97 dirà: «Borrelli vive uno sfrenato protagonismo, Davigo è sopra le righe, questi pensano di essere una casta sacerdotale di aristocratici».
E poi tre mesi dopo continua: «Dobbiamo liberarci della malattia infantile del giustizialismo».
Alla fine del ‘99 si lamenta: «Si continua a fare un uso politico della giustizia per eliminare dalla scena gli avversari politici».
E vota contro le autorizzazioni a procedere o all’arresto richieste non solo per Cesare Previti.
Con tanti saluti all’Algeria della Repubblica italiana nata dalla Resistenza!
Da allora in poi comincia l’era infinita delle svolte.
Le Pen è archiviato, il gollismo sostituito da una direzione di marcia che punta oramai verso la Destra tecnocratica di Giscard e che già era degli azionisti del vecchio PRI di La Malfa, tanto caro ai salotti buoni della finanza italiana.
Cossiga - che di massoni se ne intende - lo definisce il Tony Blair della Destra.
Freddo, pragmatico, a-morale Fini abiura tutto l’abiurabile e nel giro di pochi anni (e talvolta perfino di qualche mese o settimana) si appropria del più disinvolto laicismo, del più improbabile occidentalismo, del più sfacciato liberismo, voltando le spalle a quei milioni di elettori che erano di Destra non solo perché anticomunisti, ma perché portavano dentro di sé un mondo magari confuso, ma pieno di valori.
Fini li lascia orfani e tristi.
La grande stampa plaude, i militanti di vecchia data piangono.
Qualcuno se ne va.
Fini è l’uomo che l’8 maggio del 1988 al cinema Adriano aveva consegnato al leader della Destra nazionalista francese Jean-Marie Le Pen la tessera «ad honorem» del MSI, dicendo: «Il Msi-Dn, come Le Pen, non è razzista nei confronti dei diversi. Ma ciò non può significare fare finta di nulla per il pericolo di una progressiva perdita di identità nazionale».
Fini è anche il segretario di partito, che, ad un Berlusconi che si affannava a strappargli via l’immagine di fascista, replicava: «Sono un postfascista, ma sarebbe meglio dire un fascista nato nel dopoguerra».
Fini è l’uomo che nel libro «Il fascista del Duemila» di Corrado De Cesare afferma: «Sono convinto che l’intuizione mussoliniana di una terza via alternativa al comunismo e al capitalismo sia ancora oggi attualissima. Il nostro compito è di attualizzare, in una società postindustriale alle soglie del 2000, gli insegnamenti del fascismo che con la Carta del lavoro del 1927, l’Umanesimo del lavoro di Gentile e i 18 punti di Verona della RSI, ha lasciato un testamento spirituale, dal contenuto profondamente sociale, dal quale non possiamo prescindere».
Oppure: «Credo ancora nel fascismo, sì, ci credo» (19.8.1989) e come se non bastasse «Nessuno può chiederci abiure della nostra matrice fascista» («Il Giornale», 5.1.1990).Fini è l’uomo che parlava di Mussolini definendolo «il più grande statista del secolo» e «un esempio di amore per la propria terra e la propria gente», che «se vivesse oggi, garantirebbe la libertà degli italiani» (30.9.1992), sostenendo che un giorno l’Italia lo avrebbe dovuto riabilitare e «insieme a Cavour, Mazzini e Garibaldi, anche a lui saranno intitolate piazze e monumenti» («Il Giornale» 19.10.1992).
Fini è l’uomo che ammoniva sul fatto che tutti devono interrogarsi «sul fascino che le nostre idee conservano tra le nuove generazioni a cinquant’anni dalla caduta del fascismo».
Fini è l’uomo secondo cui «’identità che il MSI orgogliosamente rivendica non è tesa a restaurare il regime fascista, bensì a rilanciare i valori che quel regime teneva ben presenti ed elevò alla massima dignità».
Fini è l’uomo che nel ‘91 scriveva: «non occorre impostare un rilancio del MSI su una operazione di ridefinizione ideologica. Tutti quanti diciamo che siamo i fascisti, gli eredi del fascismo, i postfascisti o il fascismo del Duemila», ma già lanciava una strategia: «Per essere di nuovo determinante il MSI deve saper essere anche figlio di puttana».
Fini è l’uomo che nel ‘92 gridava: «E’ più che mai attuale il ‘Boia chi molla’ di Ciccio Franco».
E ancora il 7 maggio di quello stesso anno così salutava: «Ai combattenti della Decima Mas, espressione più alta del valore dei nostri soldati, va il cameratesco saluto di tutto il MSI... Ognuno di voi, e con voi tutti i combattenti delle Forze Armate della RSI, rappresenta la prova che chi è vinto dalle armi ma non dalla storia è destinato a gustare il dolce sapore della rivincita... Dopo quasi mezzo secolo, il fascismo è idealmente vivo...».
Fini è l’uomo che un anno dopo rivendicava: «A cinquant’ anni dalla fine della guerra nessuno può pretendere che il MSI faccia in qualche modo un’abiura di ciò che è stato. Non dobbiamo sconfessare un bel niente».
Fini è l’uomo che ancora nel ‘94 ribadiva: «Mussolini è stato il più grande statista del secolo ...»
Ci sono fasi in cui la libertà non è tra i valori preminenti» e alla domanda se Berlusconi potesse eguagliarlo, rispondeva: «Berlusconi dovrà pedalare per dimostrare di appartenere alla storia come Mussolini».
Fini è l’uomo che nel 2003, giusto un anno prima di (o al fine di - fate voi …) divenire ministro degli Esteri (come in effetti accadrà un anno dopo), si reca in visita ufficiale in Israele e a conclusione della visita a Yad Vashem (il museo della shoah di Gerusalemme) con la kippà in testa, alla domanda se dell’epoca del male assoluto fa parte anche il fascismo, risponde con assoluta naturalezza: «Certo. Nel male assoluto rientra tutto ciò che abbiamo visto oggi allo Yad Vashem. C’è un dovere della memoria, un dovere di denunciare le pagine vergognose che ci sono nella storia del nostro passato. Si deve capire la ragione per la quale l’ignavia, l’indifferenza, la complicità fecero sì che tantissimi italiani nel 1938 nulla facessero per reagire alle infami leggi razziali volute dal fascismo».
La fermezza nelle posizioni è memorabile.
Il 15 marzo del ‘93, in occasione del primo referendum sul sistema elettorale, dice: «L’uninominale è un sistema elettorale voluto dalla DC, dal PSI e dal PDS, dalla cupola della Confindustria e dal potere sindacale per salvare il regime partitocratico e riciclare i partiti sepolti da Tangentopoli.
Il risultato, se vinceranno i sì al referendum-truffa, sarà la fine dell’unità nazionale e l’Italia spaccata in tre: un Nord leghista, un Centro di sinistra e un Meridione democristiano e mafioso» dice.
Un anno dopo, il 16 maggio ‘94, contrordine: «Noi siamo per l’uninominale pura a turno secco, all’inglese».
Con Bossi sono insulti e reciproche retromarce.
Così il suo giudizio sul «senatùr»: «Occhetto è l’avversario, Bossi il nemico. Non accetteremo mai nessun accordo tecnico con la Lega» proclama nel febbraio del 1994.
Due mesi dopo ci va al governo insieme.
«E’ un criminale. Un ubriaco. Un animale. Con lui non prenderò mai più neppure un caffè» dice dopo il ribaltone del ‘95.
Ma nel 2001 è di nuovo al governo con la Lega e nel 2003 firma proprio con Bossi la nuova legge sull’immigrazione, che dovrebbe rendere più difficile la permanenza agli immigrati clandestini.
Non ha ancora finito di raccogliere consensi e proteste che, qualche mese dopo, clamorosamente, propone una legge per dare alle elezioni amministrative il voto agli immigrati.
I militanti di AN insorgono, lui li snobba.
Nel febbraio 2006, inserita nel pacchetto sicurezza per le Olimpiadi invernali Torino 2006, fa approvare una modifica al DPR numero 309/1990, che rende la disciplina dell’uso di stupefacenti più restrittiva.
Con quale faccia non si sa, se qualche settimana prima, ospite di Fabio Fazio, aveva raccontato: «Anch’io ho provato uno spinello. Sono stato rimbecillito per due giorni: è successo in Giamaica insieme ad alcuni amici».
Ci sarebbe molto da eccepire, a partire dalla questione dei due giorni…
Alleanza Nazionale nasce rivendicando il sostegno ai valori cristiani e crea pure una Consulta etico-religiosa, di cui è presidente Gaetano Rebecchini.
Ma al primo appuntamento in cui occorre serrare le fila, il referendum sulla fecondazione assistita nel giugno 2005, Gianfranco Fini, il presidente di AN si smarca, prende tutti di sorpresa e dichiara - in coppia con la forzista Prestigiacomo - di votare tre sì all’abrogazione.
I suoi sono sconcertati.
Rebecchini si autosospende, Alemanno si dimette da vicepresidente, Mantovano se va dall’esecutivo politico.
Qualcuno lo accusa di avere abbandonato la «croce» per il «compasso».
Lui minaccia querele.
Quest’anno sembrava essere un anno sabbatico, ma il nostro coglie tutti di sorpresa e infila un altro dei suoi memorabili affondo in piena zona Cesarini.
Sul numero 52 dell’Espresso, in edicola, sul tema coppie di fatto dichiara : «Premesso che il diritto naturale e la Costituzione dicono che l’unica famiglia è quella fondata sul matrimonio, dobbiamo necessariamente prendere atto che nella nostra società ci sono forme di convivenza e di unione non assimilabili alle famiglie. La grande maggioranza degli italiani costruisce una famiglia, ma solo un ottuso può dire che non esistono altre realtà».
L’intervistatore gli chiede: «E’ una questione privata? O serve una legge?»; lui risponde: «Se ci sono diritti o doveri delle persone che non sono tutelati perché fanno parte di un’unione e non di una famiglia servirà un intervento legislativo per rimuovere la disparità. Ma aspetto di vedere se davvero il governo presenterà questo disegno di legge. Ho molti dubbi che riesca a farlo». L’intervistatore allora lo incalza: «Una legge che vale anche per i gay?».
«Naturalmente - precisa Fini - quando parlo di persone mi riferisco a tutti».
«Cuore», il settimanale satirico diretto da Michele Serra, quando nel 1993 si consumò lo scontro al ballottaggio con Rutelli per la conquista della carica di sindaco di Roma, gli dedicò un titolone folgorante, facendogli dire: «Voto Rutelli. Questi fascisti mi fanno paura».
Il sommario diceva: «Mi sento anche un po’ extracomunitario, ebreo e comunista, per non parlare delle mie nuove tendenze omosessuali».
E noi che pensavamo fosse satira…
Domenico Savino
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